Onorevoli Colleghi! - Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito a notevoli cambiamenti negli scenari dell'economia mondiale. Secondo autorevoli esponenti della comunità accademica e importanti istituzioni internazionali come le Nazioni Unite o la Banca mondiale, alcune tra le più rilevanti trasformazioni si sono registrate nel campo della finanza e della distribuzione del reddito. L'accelerazione dei processi di deregolamentazione finanziaria è stata accompagnata da fenomeni di instabilità sempre più vistosi, soprattutto in campo valutario. Inoltre, il pressoché completo abbattimento dei vincoli alla libera circolazione internazionale dei capitali ha fortemente limitato le politiche economiche nazionali. E la combinazione tra instabilità finanziaria e impotenza della politica economica ha notevolmente contribuito alla inquietante divaricazione dei redditi verificatasi, durante gli anni '90, sia tra Paesi che all'interno dei singoli Paesi.
      È ormai vastissima la letteratura economica in grado di dare fondamento e supporto ai nessi appena delineati. Sul piano teorico, i recenti studi sull'incompletezza dei mercati, sulle asimmetrie informative, sul comportamento speculativo hanno ridestato l'attenzione degli economisti nei confronti del problema dell'instabilità finanziaria e valutaria. Sul piano dell'evidenza empirica, il frequente ripetersi di crisi valutarie in Europa, in Russia, nel Sud-Est asiatico e in America Latina, l'assenza di «basi oggettive» in grado di spiegare gli enormi, repentini afflussi e deflussi di capitale che spesso attraversano i Paesi meno sviluppati; questi e molti altri eventi hanno sollevato fortissimi dubbi sui meccanismi autoregolativi e sulle proprietà taumaturgiche della «mano invisibile» del libero mercato, in particolare del mercato finanziario.
      In tal senso, gran parte della comunità accademica sembra ormai aver fatto propria una famosa affermazione del premio

 

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Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, secondo il quale il sostegno politico degli ultimi vent'anni alla deregolamentazione finanziaria è stato «fondato più su un legame ideologico nei confronti di una concezione idealizzata dei mercati che sull'analisi dei fatti o della teoria economica».
      La medesima concezione idealizzata dei mercati ha spesso indotto a trascurare le straordinarie divaricazioni dei redditi associate al dilagare dei fenomeni di instabilità valutaria e finanziaria. Eppure, a conferma dell'allargamento della forbice distributiva, basterebbe ricordare le forti sperequazioni che sono state determinate dalle minacce di fuga dei capitali e dalle conseguenti politiche restrittive e disinflazioniste, o i costi in termini di compressione dei salari e della spesa sociale fatti pagare ai lavoratori e alle categorie più svantaggiate per conferire ai singoli Paesi credibilità internazionale, oppure, ancora, l'arresto della crescita economica e la disoccupazione scaturiti dallo scoppio delle bolle speculative derivanti dall'apertura di molti Paesi emergenti ai capitali internazionali. Messico, Indonesia, Corea del Sud, Russia, ma in parte anche la stessa Italia nel corso dei primi anni '90, sono solo alcuni dei moltissimi Paesi che hanno vissuto simili fenomeni di spostamento dei redditi e della ricchezza, generalmente a favore delle speculazioni finanziarie e a danno dei lavoratori e dei beneficiari della spesa pubblica.
      La rinnovata presa di coscienza nei confronti della strutturale instabilità dei mercati monetari e finanziari e dei danni che essa è in grado di provocare, ha riaperto il dibattito sulla necessità di attribuire alla politica innovativi strumenti di controllo e di governo delle dinamiche economiche. Sul piano valutario, l'attuale impotenza delle istituzioni politiche nazionali si manifesta oggi nella esiguità delle riserve delle Banche centrali in confronto alla enorme massa di capitali privati circolanti, nella sostanziale incapacità dei singoli Paesi di controllare le ondate di capitale in entrata e in uscita, nel ricorso massiccio all'innalzamento dei tassi di interesse per tentare di rimediare alle crisi di fiducia.
      All'impotenza delle autorità nazionali si aggiungono poi inadeguatezza e limiti ampiamente dimostrati nella loro azione dalle istituzioni internazionali.
      È dunque sempre più sentita l'esigenza di conferire alla politica nuove leve, nazionali e internazionali, di controllo e di governo dei mercati. Un'esigenza così forte da aver indotto il premio Nobel per l'economia Amartya Seri ad invocare una riforma radicale dell'ordine monetario mondiale, una riforma che prenda «esplicitamente le distanze dall'architettura ereditata da Bretton Woods», ormai inadeguata a soddisfare sia le esigenze di stabilizzazione dell'economia mondiale che la domanda di giustizia sociale che sempre più imponente sta emergendo da tutti gli angoli del mondo.
      Non è tuttavia semplice aprire un dibattito sul delicatissimo tema della riforma dell'ordine monetario internazionale. La comunità finanziaria vi si oppone e, più in generale, le resistenze politiche sono ancora molto forti. Un primo passo nella direzione del cambiamento è stato allora individuato in una proposta, avanzata per la prima volta nel 1972 dal premio Nobel per l'economia James Tobin, basata sulla istituzione di un'imposta sulle transazioni valutarie, la cosiddetta «Tobin tax».
      Per quanto semplice e limitata, la proposta di Tobin ha raccolto negli ultimi anni il consenso di gruppi e di movimenti politici sempre più numerosi e significativi.
      Riguardo alla comunità accademica, si è verificata una straordinaria convergenza a sostegno della «Tobin tax» da parte di economisti di diversa provenienza culturale e politica. Le ragioni di un simile successo sono molte. Sul piano operativo, spicca il fatto che una tassa sulle transazioni valutarie appare in grado di contribuire contemporaneamente alla riduzione dell'instabilità sui mercati valutari, all'aumento dei margini di manovra delle autorità di politica economica nazionale e all'intervento redistributivo per rimediare,
 

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almeno in parte, alle sperequazioni dei redditi verificatesi nel corso di questi anni.
      Sul piano politico, l'istituzione della «Tobin tax» potrebbe simbolicamente rappresentare una netta inversione di tendenza rispetto alle scelte di deregolamentazione dell'ultimo ventennio. Uno strumento semplice, dunque, per il perseguimento di molti obiettivi complessi, sia operativi che politici.
      Il funzionamento della «Tobin tax» è relativamente agevole da comprendere.
      Essa consiste in un'imposta proporzionale al valore di ogni transazione valutaria effettuata, ed è pagata in eguale misura da entrambe le parti del contratto. Questo significa, ad esempio, che a fronte di una conversione di un milione di euro in dollari, un'imposta dello 0,1 per cento imporrebbe a ognuno dei contraenti di versare al fisco 1.000 euro, o il loro equivalente in dollari.
      Per avere un'idea intuitiva del modo in cui questo tipo di imposta persegue gli obiettivi menzionati è opportuno soffermare l'attenzione sul funzionamento del mercato valutario. Una parte importante delle transazioni effettuate su questo mercato è di natura speculativa. Esse sono, cioè, realizzate da operatori che scommettono sull'andamento futuro dei tassi di cambio. Opinione diffusa è che l'instabilità dei cambi derivi proprio da questo tipo di transazioni; alcuni ritengono, infatti, che la loro preponderanza sugli scambi commerciali tenda a dissociare i tassi di cambio da qualsiasi base oggettiva; altri, più semplicemente, affermano che gli speculatori, agendo in base ad un'ottica di brevissimo periodo, tendono a sconvolgere i piani a più lungo termine che caratterizzano gli investimenti produttivi e gli scambi commerciali. Ad ogni modo, l'istituzione della «Tobin tax» introdurrebbe una novità: essa indurrebbe gli speculatori ad effettuare soltanto le operazioni più redditizie, quelle, cioè, il cui guadagno atteso sia in grado di compensare l'imposta pagata. Pertanto, ridimensionando l'attività speculativa, questo tipo di imposta potrebbe anche ridurre le oscillazioni delle valute e i relativi turbamenti per l'attività produttiva e commerciale.
      Riguardo poi all'obiettivo dell'ampliamento dei margini di manovra della politica economica nazionale, va tenuto presente che gli operatori finanziari orientano i loro acquisti verso le valute in grado di assicurare i tassi di interesse più elevati. Pertanto, a parità di altre condizioni, una politica monetaria espansiva, che comporti tassi di interesse interni più bassi di quelli prevalenti a livello internazionale, rischia di dare luogo a ingenti vendite di valuta nazionale. L'istituzione della «Tobin tax» potrebbe entro certi limiti disincentivare quelle vendite, attribuendo così alle autorità di politica monetaria un maggiore spazio di manovra sui tassi interesse. A tutto ciò, e nonostante il fatto che l'imposta di per sé riduca il volume di transazioni, occorre infine aggiungere il gettito che da essa potrebbe scaturire.
      Quanto al suo funzionamento, la «Tobin tax» è stata oggetto di critiche di vario genere. Ad esempio, vi è stato chi ha sostenuto che l'imposta è distorsiva, poiché pregiudicherebbe l'allocazione efficiente delle risorse determinata dal libero operare delle forze di mercato.
      Ma questa obiezione si basa sull'ipotesi che il mercato si trovi perennemente in condizioni ottimali e che la speculazione sia sempre stabilizzante; assunzioni che la letteratura più avanzata considera ormai improponibili e che sopravvivono nel dibattito politico solo in base all'interesse o al pregiudizio ideologico. Altri hanno invece evocato il pericolo che l'imposta colpisca le transazioni commerciali piuttosto che l'attività speculativa. Ma, dato il basso livello dell'aliquota proposta, è ragionevole ritenere che l'imposta inciderebbe essenzialmente sugli speculatori, cioè su coloro che, effettuando il maggior numero di scambi valutari, sarebbero costretti a pagarla più spesso. Altri ancora hanno parlato di un pericolo di illiquidità o del fatto che l'imposta colpirebbe anche le operazioni di copertura contro il rischio. Ma pure nei confronti di tali perplessità la letteratura economica favorevole alla «Tobin tax» ha offerto argomentazioni convincenti,
 

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come ad esempio il fatto che, riducendo l'instabilità dei cambi, l'imposta potrebbe in molti casi liberare gli operatori dalla necessità stessa di coprirsi contro il rischio.
      Del resto, come è stato ammesso in un rapporto sulla «Tobin tax» del Parlamento europeo, è ormai assodato che le obiezioni più significative all'introduzione della tassa non sono di natura analitica, ma si riferiscono alla sua effettiva praticabilità politica.
      L'ostacolo fondamentale all'istituzione di un'imposta sulle transazioni valutarie è infatti sempre consistito nella difficoltà di immaginare un accordo mondiale per l'applicazione simultanea della stessa su tutte le piazze. Un simile accordo è ritenuto necessario per evitare di veder migrare gli scambi valutari nei mercati in cui l'imposta non sia applicata. Ma al di là di pochi, timidi tentativi delle Nazioni Unite a metà degli anni '90, un'intesa del genere non è mai stata effettivamente perseguita nelle sedi della politica internazionale.
      L'accordo multilaterale e simultaneo, insomma, appare difficilmente praticabile. Mia opinione, tuttavia, è che l'impraticabilità di un simile accordo derivi in gran parte dalla pretesa che esso debba emergere dal nulla, anziché, magari, da un complesso di iniziative minori già consolidate.
      È in questo senso che ritengo fondamentale, allo stato attuale del dibattito, promuovere l'introduzione di un'imposta sulle transazioni valutarie all'interno dell'Unione europea. Ed è nella medesima ottica che propongo, in subordine, che un'imposta ancora più contenuta venga istituita anche soltanto in Italia. L'Italia in Europa e l'Europa nel mondo potrebbero in tal modo assumere il ruolo di battistrada per il raggiungimento di un'intesa a livello mondiale.
      La critica principale che viene rivolta a tale «strategia dal basso», alternativa all'accordo multilaterale e simultaneo, è che la migrazione delle transazioni verso le piazze esentate dall'imposta sarebbe immediata e imponente. L'ipotesi è che la reattività degli operatori finanziari all'introduzione di una simile imposta sia molto alta, anche nel caso in cui l'aliquota sia contenuta, e che non sussisterebbero ostacoli significativi allo spostamento di enormi volumi di transazione da una piazza all'altra. La letteratura economica, tuttavia, ha ormai chiarito che tali assunzioni riflettono solo una possibilità estrema all'interno di un ventaglio molto più ampio di esiti possibili. Non va dimenticato, in tal senso, che sono già esistite in passato situazioni di coesistenza di regimi fiscali differenziati in un contesto di libera circolazione dei capitali, e che solo di rado si sono riscontrate reazioni immediate e violente da parte degli operatori finanziari. Ma soprattutto, è bene chiarire che il vizio fondamentale delle critiche basate sulla migrazione delle transazioni sta nel fatto che tali critiche assumono implicitamente lo scenario politico come un dato immutabile, laddove invece l'obiettivo fondamentale di una «strategia dal basso» verte proprio sull'intento di scuotere quello scenario, per sollecitare l'applicazione dell'imposta da parte di tutti i Paesi e più in generale per dimostrare che i tempi sono maturi per il rilancio del dibattito sulla riforma del sistema monetario internazionale.
      La «Tobin tax» dunque non è la panacea, ma uno strumento operativo di cui ormai conosciamo tutti i limiti, ma anche le oggettive potenzialità. È inoltre un simbolo politico di rinnovamento, un possibile segnale di svolta dopo anni di arretramento della politica dalla gestione della moneta e della finanza.
      La presente proposta di legge ripropone il testo unificato delle proposte di legge presentate nella XIV legislatura a prima firma Crucianelli (atto Camera n. 1233), Nesi (atto Camera n. 1301), Giovanni Bianchi (atto Camera n. 1475) e Grandi (atto Camera n. 3048), nonché di una proposta di legge d'iniziativa popolare sostenuta da 180.000 firme (atto Camera n. 3041), adottato il 13 dicembre 2005 dalle Commissioni riunite III e VI della Camera dei deputati.
 

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